Che ruolo mi è riservato nella società in cui vivo, qual è la mia condizione, quali possibilità di miglioramento mi sono offerte? Come sto spendendo la mia vita, che cosa sto cercando di diventare, cosa sto effettivamente diventando?
Se ognuno di noi tornasse a porsi seriamente queste domande, se i proletari tornassero a porsele l’un l’altro e l’una all’altro, forse la classe stessa inizierebbe a ricordarsi della propria esistenza, guardarsi in faccia e interrogarsi sulla propria mutata, mutante fisionomia, sulle proprie condizioni e prospettive, su ciò che come tale subisce e sui modi in cui collabora alla propria soggezione. Forse le incomunicanti comunità degli oppressi sparse in tutto il mondo ricomincerebbero a riconoscere nei volti dei migranti che le attraversano, non parassiti o invasori, come nazionalismi e regionalismi insegnano, ma potenziali alleati ed a ricordare che chi è salariato, disoccupato o nullatenente, individuo o gruppo che sia, più è isolato più è fottuto.
Che cosa significa, oggi, essere “proletario”? Siamo di fronte ad uno di quei casi in cui gli sviluppi storici han reso sempre più pregnante il significato immediato di un termine: proletario è, oggi come ieri, lo sfruttato, colui che lavorando una vita riesce a mala pena, con quotidiani sacrifici, rinunce e accortezze, a procurarsi di che vivere o poco più.
D’altra parte, appare evidente a chiunque ne subisca le conseguenze o anche solo sfogli qualche statistica, che sia lo sfruttamento del proletariato, sia il processo di proletarizzazione han fatto, negli ultimi decenni, a livello globale, balzi in avanti registrando accelerazioni che han demolito quel minimo di tutele che le classi lavoratrici si erano guadagnate nella seconda metà del Novecento con vari cicli di lotte ed hanno fatto precipitare nella condizione di proletari, o in condizioni economiche e sociali prossime a quelle del proletariato, molte persone e famiglie che in precedenza avevano goduto di una condizione borghese e di una certa agiatezza.
L’esistenza di ogni singolo piccolo o medio borghese, come quella di ogni singolo proletario, non diversamente da quella di chi sta peggio di loro perché cacciato ai margini o fuori dei confini di ogni comunità, è oggi appesa a fili che non è lui a muovere, sul cui andamento non ha strumenti per influire.
La sempre maggiore e già estrema sperequazione nella distribuzione delle vie di accesso alle risorse, e l’uso dissennato, distruttivo, autolesionista di queste ultime che gli apparati finanziari e industriali di tutto il mondo perseguono e ottengono – e gli Stati garantiscono – con la complicità in parte forzata ed in parte estorta tramite condizionamento mentale dei consumatori, minaccia e affligge, oggi, obiettivamente, la stragrande maggioranza del genere umano.
Proletari di tutto il mondo: se la maggior parte di noi continuerà a lasciar fare al manovratore o peggio a farsi suo zelante esecutore, riponendo le proprie speranze in questo o quel partito che promette buon governo, questo o quell’imprenditore che promette alle sue dipendenze la via per un riscatto sociale, questo o quello Stato che asserisce di tutelare e incarnare i suoi interessi, né per noi, né per il nostro prossimo, né per i nostri figli e nipoti ci sarà scampo.
Sfruttati e oppressi di ogni luogo e sorta, ricominciamo a riconoscerci l’un l’altro, ad interrogarci sulla nostra condizione e le nostre possibilità, su ciò che ci differenzia e su ciò che ci accomuna, sulle nuove forme di espropriazione di saperi, poteri e “diritti”, di sfruttamento ed autosfruttamento, sui nostri punti di forza e di debolezza e cospargiamo la società di luoghi in cui si possa farlo. Iniziamo a ricordarci ciò che un tempo per la maggioranza di noi era chiaro: tra chi ruba qualcosa, per fame, in un supermercato ed il suo legittimo proprietario chi è il vero ladro. Né va delle vite nostre e, in fondo, di tutti: perché borghesi o proletari si nasce, ma difensori degli interessi di una classe contro quelli di un’altra si diventa e perché al peggio non c’è argine se quell’argine, dal basso, non lo si crea.
Marco Celentano